Mostra Personale - Laboratorio41
A cura di: Andrea Ferroni
Mostra Personale, Laboratorio 41, Macerata
Dal 7/26 aprile 2013
Laboratorio 41, art gallery, presenta il lavoro di Giulio Perfetti, artista, e ricercatore di molteplici espressioni creative, che ama sperimentare la pittura su materiali diversi con tecniche che gli consentono di attualizzare e trasgredire la tradizione. Il suo è un viaggio multimediale tra la storia, il mito ed il mondo classico all’interno di un labirinto interiore, metafora dell’incessante ricerca dell’uomo contemporaneo che torna a dialogare con gli idiomi del passato.
In questa mostra, presentata dal filosofo Andrea Ferroni, viene esposta una serie di lavori realizzati dalla fine del secolo scorso ai giorni nostri avente come soggetto principale il simbolo matematico dell’infinito, rivisitato attraverso la storia dell’arte, l’antropologia e l’indagine semiotica. Tra le opere le”Gocce d’infinito”, una serie di piccole terracotte smaltate che riportano l’immagine del cono visivo, simbolo della ricerca cognitiva dell’uomo che si interroga sull’universo.
Il simbolo dell’infinito ha ispirato l’artista a realizzare una scultura luminosa pensata come grande installazione da parete costituita da una silhouette in lamiera retro- illuminata. L’opera si intitola “M’illumino d’infinito”, parafrasando una delle poesie più note del di Ungaretti, per esprimere la folgorazione mistica trasposta nell’esperienza della luce.
Tra gli sponsor tecnici dell’evento si segnala la presenza di “NiceandSquare”, azienda marchigiana per la quale l’artista ha realizzato ‘’L’infinito’’, una seduta-omaggio al poeta più rappresentativo della terra marchigiana: …sedendo e mirando interminati spazi e sovrumani silenzi io nel pensier mi fingo….. L’opera e’ stata selezionata per l’undicesima edizione del “Grandesign Etico International Award 2010”a Milano presso il prestigioso Spazio Oberdan.
La parola “infinito” esiste
L’infinito ha una storia. Il che già complica le cose: come può un infinito, che dovrebbe avere a che fare con l’eterno, essere dentro il tempo? Eppure c’è. C’è, ad esempio, dentro il tempo della lettura di una poesia di Leopardi. Ma, più in generale, c’è perché l’infinito si rivela, nei suoi modi, ad un essere umano che sta dentro il tempo e che infinito non è. Un essere umano, finito, può dunque comprendere l’infinito? Non può. Però ne può parlare. Oppure lo può significare, cioè tradurre (e tradire) in altri linguaggi, in segni grafici o pittorici.
Più il segno è allusivo – al limite anche ambiguo -, più si avvicina al simbolo. Il simbolo, per sua natura, unisce qualcosa che c’è a qualcosa che non c’è. Il simbolo è un rimando a qualcosa di ulteriore. Un ulteriore che sfugge e non può essere meglio specificato. Un ulteriore che lascia qualche traccia di sé come rimando. Un ulteriore che, nonostante tutti i nostri limiti di comprensione, desta meraviglia.
L’infinito ha una storia. Ed è la stessa storia della meraviglia. La meraviglia non nasce come emozione bella. La meraviglia, in Occidente, nasce come Thàuma, come sbigottimento, come sbalordimento. C’è in gioco non solo un romantico senso del mistero che ci avvolge, ma soprattutto il dubbio, l’angoscia, la vertigine che ci lascia senza fiato. La meraviglia nasce come un colpo che si riceve dall’universo. Un colpo che si riceve dal fatto di essere vivi in un’immensità spaesante. L’infinito percuote duramente la finitezza dell’uomo.
E allora non possiamo rimanere così stupiti se, all’inizio della riflessione occidentale antica, l’infinito diventa presto un concetto negativo: era il non finito, il non completo, il non perfetto. Non potendo essere misurato, l’infinito era lo smisurato, il mostruoso.
Ma, dopo essere stato rimosso come negativo, l’infinito non avrebbe mancato di ritornare e farsi ritrovare come mostro terrificante. Pitagora, con la scoperta dei numeri irrazionali, fu uno dei primi a farne le spese. Altri pitagorici, come Platone, cercarono di addomesticare l’infinito illudendosi di possedere una facoltà che, seppure dopo lunghi anni di tirocinio, fosse in grado di vedere con esattezza l’Uno e contemplare il mondo ideale di cui l’Uno era a capo. E così l’infinito metafisico diventava l’esattezza fisica del nostro sguardo. Un discepolo di Platone, Aristotele, fece sì che l’infinito restasse un assurdo per più di un millennio.
Insomma, l’essere umano, che ancora non era quasi capace di nominare l’infinito, cominciava nondimeno a misurarlo con il suo metro. L’uomo era misura dell’infinito. Il gran bisogno di stabilità, di fronte al trauma del Thàuma, aveva condotto alla rimozione dell’angoscia infinita in favore delle scienze esatte, ognuna nel suo ambito limitato.
Ancora oggi portiamo i segni di quel tradimento dell’infinito. Nei secoli lo abbiamo addomesticato con varie parole sostitutive: trascendente, Dio, vita eterna. Ma l’infinito, nella sua ulteriorità ineludibile, resiste a ogni definizione e ad ogni ingabbiamento. Ha resistito, ad esempio, anche al rogo di Giordano Bruno.
Oggi siamo figli di Cristo e, allo stesso tempo, di Giordano Bruno. Ma da quando siamo cristiani, lo spaesamento angosciante, in cui si rivela l’infinito, è entrato dentro di noi come desiderio. Come un desiderio di infinito che si trova nell’Al di là, mentre noi, miseri e limitati, siamo nell’al di qua. Un desiderio che ci fa sentire una lacerazione. Un desiderio che, con il tempo, diventa anche sogno romantico. Un sogno malinconico. E gli artisti, di questa malinconia, sono da sempre i legittimi portavoce.
In tutta questa storia c’è, per forza, in quanto essere umano, anche Giulio Perfetti, che da tempo, in quanto artista, ha scelto il senza tempo come tema di molte sue opere. Ha scelto di offrire le sue opere affinché facciano da specchio simbolico dello smisurato. Ha cercato di rappresentare l’infinito nell’unico modo rispettoso concesso agli esseri umani: facendone, a suo modo, un simbolo. Ha trasformato l’infinito in rimandi linguistici. Perché la parola “infinito” esiste e venne ad abitare in mezzo a noi.
Giulio Perfetti è consapevole che, nell’avere a che fare con l’infinito, non si può prescindere dall’ottica umana, più o meno precisa. L’esattezza è un prezzo da pagare se si vuole comunicare ed è, però, anche il principale ostacolo tra l’essere umano e l’infinito. E si capisce: nel momento in cui siamo esatti siamo più tranquilli. E se siamo comodi e sereni dove va a finire l’originaria angoscia desituante dell’infinito?
Eppure si sta comodi davanti ad alcune opere di Giulio Perfetti; su alcune di esse ci si può addirittura sedere, come nella seduta in stonewave del simbolo matematico dell’infinito. Cosa c’è di più esatto della matematica? Cosa c’è di più tranquillizzante della matematica che ordina ogni cosa e ci illude che perfino l’infinito sia misurabile? Eppure, per rappresentare l’infinito, anche la matematica si è dotata di un simbolo: la scienza più esatta usa un segno grafico suggestivo, che rimanda, volente o nolente, ad un’ulterioriorità. Giulio Perfetti ci fa accomodare sulla cifra dell’ulteriore, rendendoci consapevoli che la funzione non è tutto. A conferma di ciò, il segno grafico matematico diventa, in un’altra opera, oggetto che irradia un oltre e si illumina, nascostamente, d’infinito.
Giulio Perfetti è un artista sorridente, perché dell’infinito sa cogliere la meraviglia e desidera proporcene il fascino con tanti linguaggi diversi. Perché la parola “infinito” esiste. Ma nelle opere pittoriche, in particolare nei Tondi Doni, emerge una vertigine antica, vi si trova di nuovo quella sensazione di straniamento che era tipica del Thàuma. L’artista viene colpito dall’Universo e recupera la vera storia della meraviglia. La presenza dell’artista indica, senza mezze misure, anche l’esattezza dello sguardo. Ma l’artista sa che l’esattezza è il segno del limite. Giulio Perfetti nomina il limite e il limite risponde. Per rappresentare l’infinito bisogna anche farsi usare da esso e l’infinito, ringraziando chi ha deposto ogni delirio di onnipotenza, si lascia alludere in una moltitudine di altre espressioni linguistiche che vanno dalla grafia, alla modellazione della materia, alla scultura, fino al design e alla manipolazione fotografica.
L’artista, più di ogni altro essere umano, è un punto medio tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Purché si faccia attraversare dallo spaesamento senza rimanerne tramortito, purché si lasci passare addosso la densità delle gocce di infinito, la accolga su di sé e ne restituisca al mondo il massimo di disumanità possibile.
C’è un altro infinito, più maschile, che trova un rimando nelle opere di Giulio Perfetti, quello delle stelle in erezione. Si ritorna al tema del desiderio. Un desiderio che ha a che fare con l’erotismo, certo. Ma non possiamo dimenticare il desiderio di infinito, lasciatoci in eredità dal Cristianesimo. L’atto del desiderare ha a che fare con le stelle fin dalla sua possibile etimologia (de sidereus ossia, dal sidereo, dal cielo, dalle stelle, dal divino). Siamo figli dell’universo ma ora, appiattiti sulla Terra, possiamo solo misurare la nostra distanza dalle stelle e contemplare meravigliati quello spazio siderale che ci separa dagli astri. Il desiderio rivela sempre una distanza. Il desiderio di infinito rivela una distanza infinita.
Quando di quella distanza, perduta l’angoscia antica, ci coglie la meraviglia moderna, allora noi percepiamo di appartenere ad un’energia più grande, ad una libido universale. Ma siamo esseri umani. E la libido universale la riversiamo più spesso nella nostra sessualità. La sessualità maschile, che appartiene a tutti, è energia con un culmine e una discesa. Ecco: le stelle stanno lì a dire che, per gli esseri umani, ad ogni erezione creativa seguirà inevitabilmente una discesa e, forse, una caduta. Il nostro desiderio misura la distanza dalle stelle, che invece sono fonte inesauribile e sempre eccitata di vita. Quindi le stelle stanno lì a raccontare anche che è possibile un rapporto con l’infinito siderale e la sua potenza vitale, non attraverso la scienza calcolatrice, ma riattivando la ancestrale relazione energetica dell’uomo con il cielo. Astrologia, non astronomia. D’altronde l’esistenza è precaria e non potrebbe reggere senza strutture protettive. Le stelle, non gli psicofarmaci, sono il nostro simbolo guida: cadi sette volte, rialzati otto. E conduci pure le tue battaglie, tanto nell’arte, quanto in politica.
Gli infiniti sono tanti e sono terribilmente ambigui. Ma abbiamo anche una certezza: la parola “infinito” esiste e venne ad abitare in mezzo a noi.
Andrea Ferroni